sei-sicuro-le-tue-convinzioni-siano-veramente-tue?

Tutti noi siamo cresciuti con un’immagine di noi stessi che non era nostra ma era degli altri. Questa non è una considerazione astratta: è il risultato concreto di anni di feedback, giudizi, etichettature ricevute da figure significative—genitori, insegnanti, coetanei—che costruivano una narrazione su chi siamo e di cosa siamo capaci.

Il problema di questa narrazione costruita per noi è che diventa invisibile. Non la percepiamo come un’imposizione esterna, ma come una verità su noi stessi. Ci crediamo. A un certo punto, smettere di vederla come qualcosa che ci è stato detto e iniziamo a vederla come qualcosa che siamo. “Sono goffa”, “Non sono brava con i numeri”, “Non ho coraggio”, “Non sono una persona di spicco”—queste frasi che inizialmente venivano da altri, diventano il nostro dialogo interno.

Questo meccanismo è particolarmente insidioso perché crea una sorta di profezia che si autoavvera. Se credi di non essere capace di fare qualcosa, probabilmente eviterai di provarci. E siccome non lo provi, naturalmente non diventi bravo, il che conferma la credenza iniziale: “Vedi? Ti avevo detto che non potevo farlo”. La narrazione si rinforza da sola.

Come le credenze limitanti si cristallizzano nel contesto

Una delle ragioni per cui queste convinzioni persistono così tenacemente è che rimangono sempre confermate dall’ambiente in cui viviamo. Il tuo ambiente di origine conosce quella narrazione su di te quasi quanto la conosci tu. Le persone che ti circondano—famiglia, amici storici, comunità—hanno sviluppato aspettative su chi sei, e tendenzialmente si comportano in modi che mantengono quelle aspettative intatte.

Se tutti attorno a te ti vedono come la persona timida, naturalmente nessuno ti inviterà a prendere iniziative audaci. Se ti vedono come quella senza coordinazione, nessuno ti suggerirà di provare sport che richiedono equilibrio. Non per malvagità, ma per coerenza: gli altri tendono a trattarci in modo coerente con la loro immagine di noi. E ogni volta che il contesto conferma quella immagine, la credenza si approfondisce.

C’è anche un elemento ancora più sottile: il contesto condivide spesso le stesse limitazioni che hai tu. Se provieni da un ambiente dove “fare certe cose” non è la norma—che sia viaggiare da soli, cambiare lavoro radicalmente, ricercare autonomia—allora non solo le persone attorno a te non ti incoraggiano a farlo, ma i tuoi dubbi vengono attivamente validati. “Sì, ha ragione, quelle cose non si fanno così qui”. Il contesto amplifica le tue paure anziché contraddirle.

Il potere del nuovo contesto: quando nessuno sa la tua storia

Questo è il punto in cui il viaggio in solitaria diventa trasformativo, non perché il viaggio in sé abbia proprietà magiche, ma perché crea le condizioni psicologiche per sperimentare te stesso al di fuori della narrazione che ti è stata assegnata.

Quando arrivi in un luogo dove nessuno ti conosce, nessuno sa la storia che è stata raccontata su di te. Non sanno che sei “la persona timida” o “quella non sportiva” o “quella poco coraggiosa”. Non hanno decenni di aspettative cristallizzate su chi sei e cosa puoi fare. Per loro, sei semplicemente una persona che arriva.

In questo spazio di anonimato, accade qualcosa di importante: puoi iniziare a testare il confine tra ciò che credi di te e ciò che è realmente vero. Quando una persona casuale che hai incontrato in ostello ti suggerisce di fare qualcosa che normalmente rifiuteresti, non c’è la voce in background che dice “Ma tu non sei il tipo che fa queste cose”. Quella voce, quando la ascolti, è tua e tua soltanto, e quindi è più facile da mettere in discussione.

Ancora più importante: il feedback che ricevi da questi nuovi contesti non è contaminato dalle aspettative precedenti. Se fai qualcosa di audace e riesci bene, non viene mediato attraverso la lente “beh, sì, ma in realtà sei ancora goffa”. Il risultato è nuovo, non viene inmediatamente assimilato nelle tue credenze precedenti.

L’esperienza diretta come strumento di deprogrammazione

Quello che emerge dal viaggio in solitaria è il potere dell’esperienza diretta nel scalfire le convinzioni costruite. Non si tratta semplicemente di ripetere a te stesso “Sono capace”—quella è affermazione, e le affermazioni da sole non sgretolano credenze profonde. Si tratta di accumulare prove tangibili che contaddizono la narrazione vecchia.

Ogni volta che fai qualcosa che “il vecchio racconto su di te” diceva che non potevi fare, e scopri che in realtà puoi farla, raccogli una prova. Una prova non è sufficiente—la mente è molto brava a scartare una singola eccezione (“Beh, quella volta è andata bene per caso”). Ma molte prove, accumulate in contesti diversi, con persone diverse, cominciano a creare un pattern che è più difficile ignorare.

Questo è particolarmente potente quando l’esperienza è incarnata, quando non è solo un’idea ma qualcosa che hai fatto con il tuo corpo, che hai sentito. Non è astratto. Rimane con te.

Ti racconto quello che è successo a me

Io sono molto minuta, da bambina mi chiamavano “Franceschina” ero la più piccola della classe, sempre, fino al liceo, ero la prima in linea di base, non so se si da ancora; ero l’ultima ad arrivare alle corse di classe, una volta mi sono rotta un dito prendendo una palla a pallavolo alle elementari. Quindi ho imparato a capire che forse lo sport non faceva per me, dicevano tutti che ero una “patata” io lo percepivo come qualcuno di impacciato, non bravo a fare cose dinamiche. Per tutta la vita ho sempre fatto nuoto e danza, la danza per me non era così esplosiva, facevo danza classica, quindi era in linea. Ovviamente anche a casa hanno sempre rinforzato questa idea, con quelle parole che secondo molti sono innocue, “dai forse non fa per te”, ” se lo fai tu cadi”, “non è meglio qualcosa di più calmo”. e io ci ho creduto! Poi a 31 anni sono in viaggio da sola per 3 mesi in Sudamerica, mi trovo a Lima in Perù e il mio amico Brian, mentre siamo in spiaggia mi dice “dai facciamo surf, li affittano le tavole” io lo guardo sconvolta gli dico “ma sei pazzo, io non sono tipa da surf io ti faccio le foto da qui!” e lui mi dice ” ma perché che tipo è una da surf! Andiamo è divertente” e così vado! L’acqua era gelida, mi sono messa una muta, un ragazzo ci ha aiutato a prendere le onde ed ecco che scivolo sulla mia prima onda, ovviamenet in ginocchio sulla tavola! Non ho mai riso così forte in vita mia! Mi stavo divertendo, in un modo in cui non mi ero mai concesso, “perché non era elegante”, ho riso come una pazza! Adrenalina, gioia, libertà, quella semplice esperienza mi ha letteralmente cambiato la vita, perché da quel giorno mi sono spogliata di un’etichetta che mi avevano dato. Ho indagato davvero chi fosse Francesca da adulta chi fosse Francesca nella realtà, oggi! e da allora non solo faccio sempre surf anche se sono negata, ma in ogni viaggio cerco di fare sempre qualcosa che non ho mai fatto prima. È il mio modo d’abbracciare la vita!

E lo dai quale è la cosa divertente? che queste azioni hanno cambiato la mia narrazione, io ora mi definisco una persona avventurosa, a 30 anni mi sarei definita una persona tranquilla, mentale, che ama attività prettamente culturali, come i musei etc. Non che non li ami ora, ma certamente non sono SOLO quello, anzì, nei successivi 15 anni ho scelto quasi sempre avventure in natura, come se dovessi recuperare il tempo perso. Ho scoperto che il luogo che avevo scelto, era quello che mi rappresentava di più, non quello dove mi avevano messo.

Il conflitto interno e la necessità di riscrittura

Quello che spesso emerge quando le persone tornano da viaggi che si rivelano trasformativi è un conflitto interessante: la vecchia immagine di sé non scompare semplicemente, ma inizia a entrare in conflitto con le nuove prove dell’esperienza.

Questo conflitto è sgradevole. A molte persone piacerebbe che svanisse semplicemente la vecchia credenza, ma il cervello non funziona così. Ci vogliono tempo e coerenza. La nuova immagine di sé—quella che hai imparato a sperimentare durante il viaggio—deve diventare la narrazione dominante attraverso il rinforzo e la ripetizione.

Per questo motivo, ritornare all’ambiente di origine può essere particolarmente difficile. L’ambiente stesso te lo ricorda: le persone che ti circondavano continuano a vederti nel vecchio modo, le situazioni sono le stesse, le dinamiche familiari risuonano con la vecchia narrazione. È come se stessi cercando di dipingere sopra una vecchia tela con una storia diversa, ma la vecchia immagine continua a trasparire.

Il viaggio non è quindi una soluzione permanente, ma è l’inizio di un processo. È il momento in cui cominci a raccogliere le prove tangibili che la vecchia narrazione non è completa, è limitata, è stata costruita da altri per ragioni che spesso non hanno niente a che fare con chi sei realmente.

Quando il contesto non supporta la nuova immagine

Un’osservazione importante: non tutte le convinzioni limitanti possono essere sfatate semplicemente attraverso il viaggio, specialmente se torni a un contesto che continua attivamente a rinforzare la vecchia narrazione. Se l’ambiente che ti circonda ha un forte interesse nel mantenerti piccolo—sia per controllo, che per protezione, che per altre dinamiche psicologiche—allora il viaggio da solo potrebbe non essere sufficiente.

Questo è il motivo per cui le persone che fanno grandi cambiamenti spesso non tornano completamente al loro contesto di origine, o lo fanno, ma mantengono una distanza psicologica e fisica. Non significa rinnegare; è necessità di preservare la nuova comprensione di sé in un ambiente che continuerebbe altrimenti a corroderla.

La lezione più profonda del viaggio in solitaria, allora, non è solo che sei capace di cose che credevi non potessi fare. È anche che le limitazioni che senti non sono sempre la verità su di te, sono spesso la verità sul contesto in cui sei stato costruito, e i contesti possono cambiare. Anche il tuo.

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